di Pat Carra e Elena Leoni
Nel gennaio 2017, quando abbiamo incrociato la pagina Freeda, abbiamo capito che non poteva essere farina del sacco di un gruppo indipendente, come contrabbandava di essere, tantomeno di giovani femministe. I contenuti si richiamavano a un sedicente femminismo rassicurante e mai controverso.
Era molto difficile capire chi la facesse, una caccia al tesoro: nessun nome, riferimento, redazione… eppure saltava agli occhi che dietro c’erano molti soldi e molta potenza informatica.
Come dimostra la bella inchiesta di Dinamo press, è il progetto di una holding commerciale e finanziaria legata alla famiglia Berlusconi e a Fininvest.
Per noi la sua colpa imperdonabile sta nell’inganno originario: avere occultato a quelle stesse donne che si vanta di rappresentare la propria identità e le proprie concretissime mire. Questa è la differenza tra Freeda e una qualsiasi altra rivista femminile del presente e del passato. Dal momento che una pagina Facebook è “un prodotto editoriale” di tipo nuovo, si può presentare senza i vincoli di trasparenza di una rivista tradizionale.
Il gruppo Freedamedia ha agito in incognito scientemente. È riuscito a catturare un pubblico considerato imprendibile – le famose millennial, donne dai 18 ai 34 anni – intercettando il loro interesse per il femminismo e la loro fiducia nei social come mezzo democratico, con lo scopo preciso di raccogliere un eccezionale numero di profili, cioè di dati, e di offrirli ai potenziali partner commerciali e al mercato dei big data.
A risultati ottenuti non ha più avuto bisogno di anonimato e nascondigli. Il suo team – i due amministratori delegati e cofounder, in perfetto costume da hipster con barbe e tatuaggi, e la direttora editoriale – è venuto allo scoperto qui e là, nei luoghi dell’economia, per vantarsi dell’impresa e incassare il successo del suo modello di business.
Raccontano di volere essere utili alle giovani donne. Chi è utile a chi?