di Loretta Borrelli
Nel Capitale di Marx abbondano formule vigorose circa l’asservimento del lavoro vivo al lavoro morto, così sappiamo che nella seconda metà del 1800 “il dettaglio del destino individuale dell’operaio che lavora alla macchina sparisce come un’inezia davanti alla scienza, alle formidabili forze naturali e al lavoro che sono cristallizzati nel sistema delle macchine e costituiscono la potenza del padrone”. Un punto di vista utilizzato da molti nelle analisi contemporanee.
Già Simone Weil affermava che esistesse allora una figura capace di usare le macchine con la stessa libertà dell’artigiano, l’operaio specializzato capace di agire pensando e di pensare agendo. Ma tutto si sgretolava con il prendere piede dell’automazione e della burocrazia. Dopo il vertiginoso sviluppo tecnologico e la presunta smaterializzazione del lavoro che diventa cognitivo, il senso comune e le analisi più diffuse mi richiamano alla sensazione che il mio destino sparisca. Il lavoro è ormai definito immateriale, ma c’è da chiedersi se effettivamente sia così oppure se questo immaginario a cui ci siamo abituati serva ad occultarlo.
I detriti del vecchio “monumento sul lavoro” sono ingombranti ed è un vantaggio fare piazza pulita. Nel forsennato tentativo di comprendere e definire i cambiamenti per individuare nuovi soggetti politici rischiamo di partecipare ad un occultamento che perde il dettaglio dei destini singolari. Nella realtà in cui vivo il lavoro è incatenato alla tecnologia. I programmatori specializzati non assomigliano ai responsabili delle catene di montaggio. Detengono il potere di una conoscenza tecnologica e algoritmica che con regole sempre vere pretende di dare forma al mondo creando una gerarchia burocratica imprendibile. Tecnocrati per cui è possibile che un lavoro costato fatica possa essere risolto e cambiato in poco tempo perché la tecnologia lo pretende e la produzione non permette mediazioni. Non sono questi i soggetti che detengono il potere, ma come i proprietari di industria sono anch’essi soggetti all’imperativo dell’aumento di produzione. L’oppressione tecnocratica che perpetuano in questo atteggiamento tautologico è funzionale ad una feroce lotta di potere che nega se stessa.
D’altra parte chi non accede a questa conoscenza tende a affidarsi ad essa come ad una fede. Nel tentativo di avvicinare questi strumenti ai desideri di chi non li comprende ci si può trovare nella situazione in cui qualsiasi richiesta è considerata accettabile o qualsiasi sforzo è dato per scontato. La frustrazione di non poter effettivamente aprire quel dispositivo e quindi di lasciare i tentativi incompiuti porta spesso all’utilizzo consolatorio di tecnologie automatizzate e gratuite. L’invasione di queste nella vita quotidiana ha creato una massa di lavoratori che producono dati per tenere in vita le macchine informatiche.
Si nasconde il potere dei tecnocrati, si cancella la fatica delle mediazioni, sparisce il lavoro di chi produce contenuti. L’unica cosa che appare reale è l’economia informazionale. Chi vuole fare lavoro intellettuale o culturale allora forse dovrebbe vedersi come l’ultimo gradino della catena produttiva costretto al servizio della macchina nel momento in cui posta, retwitta o commenta articoli, più simile ad un operaio non specializzato. Presi nella morsa dell’aumento della produzione e della necessità personale, il sogno più seducente è quello della fine del lavoro e di un reddito slegato da questo, ma il prezzo da pagare è un destino di oppressione in cui i desideri sono costretti nella forma di un’attività invisibile fatta gratuitamente. L’individuazione delle cause del crollo del mercato del lavoro risente di questo occultamento. Non si può avere l’ipocrisia di teorizzare una organizzazione del lavoro all’interno di questo sistema tecnocratico. Una tale organizzazione crollerebbe di fronte alla necessità di una organizzazione burocratica che inevitabilmente poggerebbe sullo sviluppo tecnologico. Nulla al mondo però può impedirci di essere consapevoli del controllo esercitato dai sistemi informatici. Non un controllo della proprietà o della diffusione della informazioni, ma un controllo di senso che ha la sua materialità nei corpi che programmano.
Ritorno con la mente alla mia terra di origine, la Puglia, terra di lotte di braccianti. Abbondano le analisi che le interpretano come lotte sconfitte dallo sviluppo capitalistico che avrebbe svuotato le campagne per la promessa di maggiore agio economico. Anche in questo caso si tralascia l’esperienza viva. Nella cultura che mi ha formato nei primi anni della mia vita la rivendicazione di proprietà delle terre, prima che essere un strumento per ostacolare la produzione di massa, era la rivendicazione di uno spazio in cui si muovevano relazioni e senso della vita quotidiana. Rivendicazione di una scarna proprietà, ma anche una realtà in cui radicarsi per giocare la partita della propria libertà. È ancora Simone Weil che ci racconta come questa lotta sia costata ben più fatica per la relazione diretta con le forze impietose della natura, portando molti ad uno spostamento verso la produzione industriale che garantiva un maggior controllo e stabilità. Oggi le forze tecnologiche, che ci illudono dello stesso agio, per la maggior parte degli utenti appaiono inaccessibili e incontrollabili quanto quelle della natura. Si insinua l’idea di una incomprensibilità di natura causa di oppressione. In Meditazioni sull’obbedienza e la libertà Weil scrive “colui che obbedisce, colui i cui movimenti, le cui pene, i cui piaceri, sono determinati dalla parola altrui si sente inferiore non per caso ma per natura”.
Oggi sembra più che mai necessario sfuggire alla parola altrui che dà forma al mondo, quella totale inaccessibilità al sapere tecnologico che si impone come verità di fatto. Lia Cigarini in Se Marx avesse capito fa notare come il concetto di libertà “rimane l’impensato della sinistra, mentre e non per caso, il femminismo italiano ne fa un territorio privilegiato sia in teoria che in politica”. Non si tratta della libertà dei diritti o del neo-liberismo ma di una libertà che si struttura nella interdipendenza tra gli esseri umani, crea parole proprie e immaginari differenti.
La bracciante digitale, nata su Aspirina dalla penna di Pat Carra, è una figura ironica parte di questo immaginario. La si può pensare in cerca di una terra in cui si radica, in cui non scompare.
Milano, febbraio 2016
I fumetti La bracciante digitale sono stati pubblicati nei numeri:
Inverno 2014-15
Estate 2015